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Nessun Dove




  NEIL GAIMAN

  NESSUN DOVE

  (Neverwhere, 1996)

  Nessun dove semplicemente non esisterebbe se non fosse per Lenny Henry. Perciò questo libro è dedicato a lui e a Polly McDo­nald: ostetrici gemelli che non si somigliano affatto tranne che nell'essere entrambi insopportabilmente alti.

  È dedicato anche a Clive Brill e Beverly Gibson, che sono tutti e due di statura normale.

  «Non sono mai stato a St John's Wood. Non oso. Avrei paura della sterminata oscurità di abeti bianchi, timore di imbattermi in un calice rosso sangue e nel batter d'ali dell'Aquila.»

  G.K. CHESTERTON, Il Napoleone di Notting Hill

  PROLOGO

  Richard Mayhew non si stava divertendo molto quella notte, l'ultima prima di andare a Londra.

  Aveva iniziato la serata in modo piacevole: si era divertito a leggere i messaggi di saluto e a ricevere l'abbraccio di numerose signorine di sua conoscenza non del tutto prive di attrattiva; si era divertito ad ascoltare gli avvertimenti relativi ai rischi e ai pericoli di Londra e per il dono dell'ombrello bianco con la piantina della metropolitana londinese che i ragazzi gli avevano acquistato tutti insieme; aveva apprezzato i primi boccali di birra; poi, però, a ogni ulteriore boccale si era reso conto di divertirsi decisamente meno, e da quel momento se ne stava seduto a tremare sul marciapiedi davanti al pub, valutando gli opposti pro e contro del dare di sto­maco e del non dare di stomaco, senza divertirsi affatto.

  All'interno del pub, gli amici continuavano a festeggiare la prossima partenza di Richard con un entusiasmo che, a suo modo di vedere, cominciava ad apparire quasi sinistro.

  Si teneva stretto all'ombrello arrotolato, domandandosi se an­dare a Londra fosse davvero una buona idea.

  «È meglio che fai attenzione» disse una voce stridula e senile. «Ti cacceranno via senza lasciarti dire né ai né bai. Oppure ti met­teranno dentro. Non mi stupirei affatto.» Due occhi penetranti lo fissavano da un viso adunco e sudicio. «Tutto bene?»

  «Si, grazie» rispose Richard.

  Il volto nero di polvere si addolci.

  «Tieni, poverino» disse ficcandogli in mano una moneta da cinquanta pence. «È da tanto che vivi in strada?»

  «Non sono un senzatetto» spiegò Richard imbarazzato, tentan­do di restituire il denaro alla donna. «La prego, lo tenga lei. Io sto bene. Sono soltanto uscito a prendere un po' d'aria. Domani parto per Londra» aggiunse.

  Lei lo scrutò con sospetto, quindi si riprese i cinquanta pence e li fece sparire sotto gli strati di scialli e cappotti che la ricoprivano.

  «Sono stata a Londra» gli confidò. «Ero sposata li, ma lui era un poco di buono. Mia mamma me l'aveva detto di non sposarmi con uno di fuori, ma anche se a guardarmi oggi non si direbbe, allo­ra ero giovane e bella e ho seguito quello che mi diceva il cuore.»

  «Sono sicuro che era bellissima» commentò Richard. La certez­za di stare per sentirsi male cominciava lentamente ad affievolirsi.

  «Proprio una grande idea! Io una casa non ce l'ho, quindi so come ci si sente» disse la vecchia signora. «È per questo che ti cre­devo uno di strada. Che ci vai a fare a Londra?»

  «Ho trovato lavoro» le rispose pieno di orgoglio.

  «Che tipo?» chiese lei.

  «Be', in Borsa» disse Richard.

  «Io facevo la ballerina» spiegò la vecchia signora, mettendosi goffamente a dondolare lungo il marciapiede, mormorando tra sé e sé una musichetta stonata. Poi prese a ondeggiare da una parte all'altra come un fuso sul punto di terminare il movimento rotatorio, per arrivare infine a fermarsi proprio di fronte a Richard.

  «Fammi vedere la mano» gli disse «e ti leggerò il futuro.»

  Fece come gli era stato detto.

  La donna prese nella vecchia mano quella di Richard e batté più volte le palpebre, come un gufo con un topo nello stomaco che cominciasse ad avere qualcosa da obiettare sul fatto di essere stato inghiottito.

  «Hai davanti a te una strada molto lunga...» disse.

  «Vado a Londra» ribadì Richard.

  «Non solo Londra...» Fece una pausa. «E non la Londra che conosco io.»

  Iniziò a piovere.

  «Mi dispiace» disse la vecchia signora. «Comincia tutto con delle porte.»

  «Porte?»

  Lei annui. La pioggia si fece più intensa. «Starei attenta alle porte, se fossi in te.»

  Un po' malfermo sulle gambe, Richard si alzò. «Va bene» dis­se, incerto sul modo in cui si dovrebbero prendere in considerazio­ne informazioni del genere. «Lo farò. Grazie.»

  La porta del pub venne aperta, e luce e rumore si riversarono in strada.

  «Richard? Va tutto bene?»

  «Si, sto benone. Rientro tra un attimo.»

  La vecchia signora si stava già allontanando con passo trabal­lante, bagnandosi sotto la pioggia.

  Richard si senti in dovere di fare qualcosa per lei, anche se non poteva certo darle del denaro. Le corse dietro. «Prenda!» le disse. Iniziò ad armeggiare con l'ombrello, nel tentativo di trovare il pulsante per aprirlo. Poi un clic, ed ecco sbocciare una smisurata map­pa della metropolitana.

  La vecchia signora glielo tolse di mano, annuendo.

  «Hai un buon cuore. A volte è quanto basta per essere al sicuro ovunque si vada.» Poi scosse la testa. «Nella maggior parte dei casi, però, non è cosi.»

  Quando una folata di vento tentò di strapparglielo, strinse l'om­brello con forza, aggrappandosi con entrambe le braccia. Quindi se ne andò nella notte piovosa, una figura bianca coperta dai nomi delle stazioni della metropolitana: Earl's Court, Marble Arch, Blackfriars, White City, Victoria, Angel, Oxford Circus...

  Con lucidità da ubriaco, Richard si ritrovò a ponderare sul­l'eventualità che a Oxford Circus ci fosse davvero un circo: uno di quelli con pagliacci, belle donne e bestie feroci.

  La porta del pub si apri: un'esplosione di rumore, quasi il volu­me del locale fosse stato messo al massimo.

  «Richard, mezza sega, questa dannatissima festa è per te e ti stai perdendo tutto il divertimento.»

  Rientrò nel pub, l'impulso di vomitare dissolto in tutte quelle stranezze.

  «Sembri un ratto annegato» commentò qualcuno.

  «Ma se non l'hai mai visto un ratto annegato» ribadi Richard.

  Qualcun altro gli allungò un bicchiere di whisky. «Tieni, man­da giù. A Londra uno scotch come si deve non lo trovi di certo.»

  «Sono sicuro che lo troverò» disse Richard con un sospiro. Dai capelli, l'acqua gli colava dritta nel bicchiere. «A Londra c'è tutto.»

  Si scolò il bicchiere di whisky, poi un altro, quindi la serata diventò nebulosa e si concluse in una serie di immagini frammen­tate: dopo di che ricordava soltanto la sensazione di stare per la­sciare un luogo che aveva un preciso significato per un altro più grande e antico che di significato non ne aveva; e di aver vomitato a più non posso in un canale di scolo in cui scorreva acqua piova­na, chissà dove e a quale ora antelucana; e una figura bianca, come una sorta di piccolo scarafaggio tondeggiante, che si allontanava da lui camminando sotto la pioggia.

  La mattina seguente Richard prese il treno per Londra, stazione di Euston. Sua madre gli diede una tortina cucinata da lei apposi­tamente per il viaggio, e un thermos di tè; e Richard Mayhew se ne andò a Londra sentendosi da schifo.

  UN ALTRO PROLOGO

  QUATTROCENTO ANNI PRIMA

  Era la metà del sedicesimo secolo, in Toscana, e stava pioven­do: una pioggia fredda e spregevole che faceva diventare grigio il mondo.

  Dal piccolo monastero sulla collina si levò verso il cielo del mattino una densa chiazza di fumo nero.

  Due uomini se ne stavano seduti sulla collina, a osservare l'edi­ficio che prendeva fuoco.

  «Questa, mister Vandermar» disse il più piccolo dei due, agi­tando una mano unta in direzion
e del fumo, «sarà davvero una splendida conflagrazione, non appena conflagrerà. Benché un as­soluto rispetto per la verità mi imponga di confessare il dubbio che qualcuno degli abitanti sia nella posizione più adatta per apprez­zarla appieno.»

  «Vuole dire per il fatto che sono morti, mister Croup?» doman­dò il suo socio. Stava mangiando qualcosa che dall'aspetto poteva essere stato un cucciolo di cane, e adoperava il coltello per stacca­re grossi pezzi di carne dalla carcassa e metterseli in bocca.

  «Per il fatto che, come ha avvedutamente messo in evidenza, mio saggio amico, sono morti.»

  Ecco come è possibile distinguere i due che hanno appena par­lato: per prima cosa, quando sono in piedi, mister Vandemar è più alto di mister Croup di due teste e mezzo.

  Secondariamente, gli occhi di mister Croup sono di uno sbiadito azzurro cobalto, mentre quelli di mister Vandemar sono marroni.

  In terzo luogo, mentre mister Vandemar ha ricavato gli anelli che porta alla mano destra utilizzando il teschio di quattro grossi corvi, mister Croup apparentemente non indossa gioielli.

  In quarto luogo, a mister Croup piacciono le parole, mentre mister Vandemar ha sempre fame.

  Il monastero prese fuoco, con un risucchio d'aria: era confla­grato.

  «Non mi piace la salvia» disse mister Vandemar. «Ha uno stra­no sapore.»

  Si udì un grido, poi un potente boato, mentre il tetto crollava, quindi un rombo mentre le fiamme salivano sempre più alte.

  «Qualcuno non era morto» commentò mister Croup.

  «Adesso lo è» ribatté mister Vandemar, e addentò un'altra fetta di cucciolo crudo. Aveva trovato il suo pasto già morto in un fosso mentre si allontanavano a piedi dal monastero. Amava il sedicesimo secolo.

  «E ora?» domandò.

  Mister Croup fece un largo sorriso, con denti che parevano un cimitero disastrato. «A circa quattrocento anni da qui» rispose. «Londra Sotto.»

  Mister Vandermar mandò giù la notizia insieme a un altro pez­zo di cucciolo. Infine chiese, «A uccidere gente?»

  «Oh, si» rispose mister Croup. «Questo ritengo proprio di po­terglielo garantire.»

  UNO

  Ormai erano quattro giorni che non smetteva di correre, una sfrenata fuga a capofitto attraverso tunnel e corridoi. Era affamata e stanca, e faceva sempre più fatica ad aprire le nuove porte che le si paravano davanti.

  Trovò un posto in cui nascondersi, un minuscolo cunicolo di pietra, sotto al mondo, dove sarebbe stata al sicuro, o almeno cosi sperava e pregava, e finalmente si addormentò.

  Mister Croup aveva assunto Ross all'ultimo Mercato Fluttuan­te, che si era tenuto nell'abbazia di Westminster.

  «Lo consideri un canarino» aveva detto a mister Vandemar.

  «Perché, canta?» aveva chiesto mister Vandemar.

  «Ne dubito; ne dubito nel modo più totale e assoluto. No, mio valente amico, il mio pensiero era metaforicamente associato al­l'utilizzo che di quegli uccellini viene fatto quando vengono por­tati in miniera.»

  Vandemar fece un cenno di assenso.

  Il signor Ross non somigliava a un canarino sotto nessun altro punto di vista: era grande e grosso - quasi quanto mister Vande­mar - e sudicio, e parlava ben poco, anche se aveva ritenuto suo dovere chiarire che gli piaceva uccidere, e che era molto bravo; ciò diverti mister Croup e mister Vandemar quanto le vanterie di un giovane Mongolo che avesse appena saccheggiato il suo primo villaggio o dato fuoco a una iurta per la prima volta avrebbero di­vertito Gengis Khan. Era un canarino e non l'avrebbe mai saputo. Perciò il signor Ross, con la maglietta lercia e i jeans incrostati, andò per primo, mentre Croup e Vandemar, in elegante completo nero, lo seguivano.

  Nell'oscurità del tunnel, un fruscio: mister Vandemar aveva in mano il coltello, che non ci restò a lungo perché stava già vibran­do dolcemente a una decina di metri di distanza.

  Si avvicinò e lo raccolse. Sulla lama era infilzato un ratto, la bocca che si apriva e si chiudeva impotente mentre la vita lo ab­bandonava. Ne frantumò il cranio tra pollice e indice.

  «Ecco un topolino che non andrà più in giro a raccontare storie» commentò mister Croup, sogghignando per la battuta di spirito.

  Mister Vandemar non disse nulla.

  «Topolino. Storie. Ha capito?»

  Mister Vandemar tolse il ratto dal coltello e cominciò a sgra­nocchiarlo con aria pensosa.

  Mister Croup glielo levò di mano con un colpo secco. «La smet­ta» disse. Mister Vandemar, un po' accigliato, mise via il coltello.

  «Coraggio» sibilò mister Croup per rincuorarlo. «Ci sarà sem­pre un altro ratto. E adesso avanti! Abbiamo cose da fare. Persone da rovinare.»

  Tre anni a Londra non avevano cambiato Richard, anche se era cambiato il suo modo di percepire la città.

  Appena arrivato, Londra gli era sembrata immensa, strana e fondamentalmente incomprensibile, con soltanto la piantina della metropolina a dare una parvenza di ordine.

  Poco a poco si era reso conto che la piantina della metropolita­na era una comoda invenzione che rendeva più semplice la vita, ma non aveva punti in comune con la realtà: come appartenere a un partito politico, aveva pensato una volta, con orgoglio. Poi, dopo avere tentato di spiegare la similitudine tra la mappa della metropolitana e la politica a un perplesso gruppo di sconosciuti in­contrati a una festa, aveva deciso per il futuro di lasciare ad altri eventuali commenti sulla politica.

  Con il passare del tempo, si era sorpreso a dare Londra per scontata; dopo un po' aveva cominciato a vantarsi di non avere vi­sitato nessuno dei monumenti (a eccezione della Torre di Londra, quando zia Maude era arrivata in città per un fine settimana e, benché riluttante, era dovuto andare con lei).

  Jessica aveva cambiato tutto. Durante dei fine settimana altri­menti ragionevoli, Richard si era ritrovato ad accompagnarla in luoghi come la National Gallery e la Tate Gallery, dove aveva imparato che se si cammina troppo a lungo per le sale di esposizione si ha male ai piedi, che dopo un po' i grandi tesori dell'arte mon­diale finiscono per fondersi e confondersi l'uno con l'altro, e che è quasi al di là delle umane possibilità di comprensione accettare il prezzo sfacciatamente imposto da bar e caffè all'interno dei musei per una fetta di torta e una tazza di tè.

  «Ecco il tuo tè e il tuo bigné» le disse. «Avremmo speso meno per comprare uno di quei Tintoretto.»

  «Non esagerare» rispose Jessica, allegramente. «E in ogni caso alla Tate non ci sono quadri del Tintoretto.»

  «Se avessi preso la torta di ciliege avrebbero potuto permettersi un altro Van Gogh» ribatté Richard.

  «No che non avrebbero potuto» disse Jessica piccata.

  Richard aveva incontrato Jessica in Francia due anni prima, durante un fine settimana a Parigi; in realtà l'aveva scoperta al Louvre, perché camminando a ritroso nel tentativo di ritrovare il gruppo di colleghi di lavoro che aveva organizzato la gita le aveva pestato un piede mentre lei stava ammirando un diamante di di­mensioni e importanza storica davvero notevoli. Dopo avere inizialmente provato a scusarsi in francese, aveva rinunciato e comin­ciato a scusarsi in inglese, per poi di nuovo tentare di chiedere scu­sa in francese per avere chiesto scusa in inglese, finché si era accorto che Jessica era inglese che più inglese non si può e quindi, a mo' di risarcimento, le aveva offerto un costoso panino francese e del succo di mela frizzante incredibilmente caro e, insomma, in verità è cosi che era cominciato tutto.

  Dopo di che non era più riuscito a convincere Jessica che non era il tipo di persona che visita musei e gallerie d'arte.

  Richard era rimasto intimidito da Jessica, che era bella e spesso anche spiritosa, e che di certo avrebbe fatto strada. Jessica, invece, aveva visto in Richard enormi potenzialità le quali, opportunamen­te incanalate dalla donna giusta, l'avrebbero reso un perfetto com­plemento matrimoniale.

  Se solo fosse un pochino più ambizioso, mormorava tra sé, e quindi gli regalava libri dai titoli come Vestito per il successo e Le centoventicinque abitudini dell'uomo di successo, e manuali per la gestione degli affari come si trattasse di una campagna m
ilitare, e Richard ringraziava sempre e altrettanto sempre si prefiggeva di leggerli tutti. Gli comprava i capi di abbigliamento che pensava dovesse indossare - e lui lo faceva, durante la settimana; e un gior­no, ritenendo fosse il momento giusto, gli disse che sarebbero do­vuti andare a cercare un anello di fidanzamento.

  «Perché esci con lei?» chiese Garry, della sezione conti azien­dali, diciotto mesi dopo. «E terrificante.»

  Richard scosse il capo. «È dolcissima quando la conosci bene.»

  Garry appoggiò il troll che aveva preso dalla scrivania di Ri­chard. «Mi sorprende che ti lasci ancora giocare con questi.»

  «La questione non è mai stata sollevata» rispose Richard.

  In realtà la questione era stata sollevata. Jessica, però, si era convinta che la raccolta di troll di Richard rappresentasse un tene­ro segno di eccentricità, paragonabile alla collezione di angeli del signor Stockton, ed era giunta alla conclusione che i grandi uomi­ni collezionano sempre qualcosa.

  Non è che Richard collezionasse davvero troll. Piuttosto, in un vago e decisamente vano tentativo di infondere un po' di persona­lità al suo mondo lavorativo, aveva piazzato troll di plastica in zone strategiche della scrivania, dove si trovava anche una fotografia di Jessica su cui quel giorno faceva bella mostra di sé un bigliettino adesivo post-it giallo.

  Era venerdì pomeriggio.

  Richard aveva notato che gli avvenimenti di un certo rilievo sono vigliacchi: non si presentano uno a uno, ma preferiscono pro­cedere in massa e lanciarsi su di te tutti in una volta.

  Prendiamo questo particolare venerdì, per esempio.

  Era, come Jessica gli aveva fatto notare almeno una dozzina di volte nel mese precedente, il giorno più importante della sua vita. Non il più importante nella vita di lei, è ovvio. Quello si sarebbe verificato in futuro quando, Richard non aveva dubbi in proposito, l'avrebbero nominata primo ministro, o regina, o Dio. Ma era con assoluta certezza il più importante nella vita di lui. Perciò era un vero peccato che, a dispetto del post-it giallo che Richard aveva lasciato sulla porta del frigorifero di casa e dell'altro post-it appiccicato sulla fotografia di Jessica sulla scrivania, se ne fosse del tut­to e completamente dimenticato.